Ho pubblicato sulla rivista Servitium (quaderni di ricerca spirituale) questo articolo che parla di stili di vita scelti e non imposti. Stare alle guida della nostra vita e non farsi trasportare dove non preferiremmo andare.
STILI PER UN MODELLO ECONOMICO NON CIECO
Quando diciamo che la crisi attuale è una crisi di senso, diciamo proprio, metaforicamente, che siamo alla guida di una automobile ed abbiamo perso la direzione. Girovaghiamo senza meta con la sola soddisfazione di guidare l’auto (ogni giorno più potente e più ubriacona della precedente), fermarci in autogrill, consumare merci e continuare in un camminare senza senso.
Dice Stefano Zamagni: “non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto, risolvendola, la questione del senso. Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che sappiamo indicare alla società la nuova direzione muovere mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere”.
L’economia nasce per realizzare il bene comune, questo è il fine (il senso, la direzione). Quando questo fine lo confondiamo con il bene totale (come spesso fanno coloro che ci governano) è allora che perdiamo il senso del nostro agire economico. E mi spiego: il bene totale è il risultato di una somma di addendi, laddove se un addendo (cioè una persona, o una categoria di persone, o una comunità o una nazione, ecc) è uguale a zero, la somma è sempre positiva.
Questo vuol dire che se alcuni si arricchiscono sempre di più ed altri diventano poveri, il bene totale è sempre un valore positivo. Confermando un paradosso ormai noto: il PIL cresce ed indica un buono stato di “salute” di una nazione e contemporaneamente aumenta la povertà di molti suoi cittadini.
Il bene comune è il risultato di una moltiplicazione, nella quale come sapete non è possibile che un fattore diventi zero perché questo renderebbe il prodotto (risultato della moltiplicazione) uguale a zero. Una buona economia, una vera economia, resta tale e può durare nel tempo se garantisce che il prodotto è maggiore di zero. In questi ultimi anni molti fattori si stanno avvicinando allo zero. Qualcuno si è accorto di questo, e prova ad indicare strade alternative, anche modelli di guida diversi (per restare nella metafora) altri pensano che ciò non potrà mai accadere e continuano indifferenti a guidare la loro auto senza una direzione consumando tutto quello che appartiene anche ad altri autisti, anche a quelli che hanno la patente ma non hanno l’auto.
Desiderare il bene comune significa condividere le ricchezze con chi non ne ha. Significa che anche il mio prossimo deve avere la possibilità di raggiungere la sua “perfezione” il suo “essere di più” così come lo posso fare io (e quindi non solo io).
L’assurdità o la cecità dell’autista di questa economia globalizzata basata sulla “super produzione” per realizzare “super profitti” consiste nel fatto che sta portando a zero alcuni, o molti, fattori, anche intere generazioni, che in realtà non potranno più essere consumatori della quantità esorbitante di merci disponibili. Merci che come tutti sappiamo sono messe sul mercato da chi vuole farsi una overdose di profitto. Ma attenzione, le overdosi molto spesso portano alla morte.
In poche parole l’economia si deve preoccupare del benessere di tutti altrimenti si autodistrugge. Da sempre, infatti, la storia ci insegna che l’egoismo e l’avidità di alcuni, sono vizi che portano alla distruzione dell’intero.
Il circuito causale vizioso, di questo approccio alla economia che ho fin qui descritto, ha quindi bisogno di effetti di retroazione che consentono di frenare la corsa verso la distruzione, e se possibile fare in modo che non vi sia alcuna distruzione.
Due elementi che nel circuito causale servono a generare effetti di retroazione, sono la solidarietà e la sussidiarietà. Cioè l’economia si deve preoccupare, che il prodotto “bene comune” sia sempre maggiore di zero mediante azioni di sostegno a chi è in difficoltà (solidarietà) e senza sopprimere la creatività e libertà dell’uomo (sussidiarietà).
Ciò significa che ci si deve preoccupare di:
– ridistribuire i profitti (solidarietà), o per dirla diversamente fare in modo che le merci diventino beni (sapendo che i beni diventano tali, quando sono messi in comune, altrimenti restano merci).
– ridistribuire il lavoro (sussidiarietà), consentire cioè l’espressione creativa e realizzativa dell’uomo (sapendo che lavorare vuol sempre dire accrescere se stesso, attraverso l’azione stessa del lavoro, e non perché ci rende capaci di immettere qualche merce in più nel mercato).
Ritengo opportuno a questo punto fare un approfondimento sul valore intrinseco del lavoro. Perché questa conoscenza, rivalutazione e reinterpretazione, consente di ottenere quegli effetti di retroazione di cui abbiamo bisogno.
Il fine del lavoro, non consiste in ciò che dal lavoro si può ottenere ma da ciò che possiamo divenire noi stessi e da ciò che con esso possiamo migliorare della vita degli altri. E questo ci serve per capire che il lavoro non retribuito (domestico, assistenziale, svolto a titolo privato e gratuito, l’autoproduzione, ecc.) non solo è lavoro a tutti gli effetti, ma ci da prova del suo valore “non economico”, bensì etico ed antropologico in ogni sua specifica attività.
Quindi l’effetto di retroazione che si desidera ottenere è quello che le transazioni (ottenute con il lavoro umano) della sfera economica non devono essere ricondotte al solo scopo di migliorare l’efficienza dello scambio di equivalenti, e quelle della sfera pubblica non devono essere ricondotte al solo scopo di migliorare l’efficienza dei trasferimenti di tipo assistenzialistico.
Zamagni, ben dice: “la fioritura umana – cioè l’eudaimonia nel senso di Aristotele – non va cercata dopo il lavoro, come accadeva ieri, perché l’essere umano incontra la sua umanità mentre lavora”.
Nel circuito inoltre bisogna introdurre le “risorse morali” <<che oggi sono, per così dire, la più importante materia prima per l’esistenza del presente e per rendere possibile un futuro in cui valga ancora la pena di essere uomo>>.[1]
Un esempio di risorsa morale che non può mancare è la virtù della temperanza. E questa ha a che fare con i nostri stili di vita. Con la necessità di limitare il nostro “desiderio senza limiti” di possedere cose che purtroppo poi ci accorgiamo non essere utili al nostro benessere.
Ognuno di noi, preso singolarmente, è artefice del proprio ordine o disordine, della propria conservazione o distruzione. Provate ora a prendere di mira voi stessi e la vostra attuale condizione; indirizzate lo sguardo e la volontà su di voi. State pensando alla nostra vita migliore o peggiore? Vi scopriate generosi o egoisti? Siete concentrati sull’essere o sull’avere?
Mi piace ricordare cosa ha scritto in proposito il teologo Josef Pieper: “L’uomo che nella sua caparbia sregolatezza si accanisce a voler cercare nell’ambizione o nel piacere il suo supremo acquietamento o compimento, cammina a grandi passi sulla strada della disperazione.”
Chi vive la temperanza, invece non eccede mai, evita le esagerazioni e possiede misura ed equilibrio. Ma cosa accade quando non ci riusciamo? Possiamo semplicemente dirci che abbiamo perso il senso, la direzione.
Chi siamo e che valore ha la nostra vita? che senso gli vogliamo dare? dove si trova la nostra felicità? nel dare o nel possedere? com’è fatta la nostra felicità? materia o spirito?
Il non saper dare queste risposte è quello che ci porta a camminare senza meta e con molti eccessi che vanno mitigati.
Se non ci decidiamo a dare queste risposte, difatti ci perdiamo l’occasione di conquistare una “nuova” e straordinaria ricchezza insita in qualsiasi percorso esistenziale di chi ha fatto la scelta di impegnarsi per un ideale grande di vita. Un ideale descrivibile nei termini di un vero proprio “dover essere”, pieno di verità, a cui decidiamo di indirizzare la nostra esistenza, e a cui siamo pronti a sacrificare molte altre opportunità, in molti casi più attraenti e piacevoli.
Scegliere quest’ultimo tipo di ricchezza anziché quello proposto dall’attuale modello economico richiede certamente rinunce (che in realtà tali non sono, perché frutto di una scelta libera, volontaria). Ma si badi bene che non sono tanto queste rinunce (in alcuni casi veri e propri atti eroici) a mettere in crisi le persone, quanto la loro assenza all’interno della loro esistenza.
Per dirla in modo meno forte questo modo di vivere le cose consente di parlare di responsabilità sociale del consumatore. Il quale è sempre quello che decide le sorti del mercato. Se un prodotto non viene acquistato vuol dire che non è gradito o non serve al consumatore. Questo comportamento etico, certo non sarà gradito alle multinazionali che di conseguenza renderanno più pressante il loro impegno ed i loro investimenti per far percepire (con una valanga di pubblicità pervasiva) ai consumatori bisogni che non hanno. Per questo dobbiamo cogliere il seguente invito della Dottrina Sociale della Chiesa: “i consumatori vanno continuamente educati al ruolo che quotidianamente esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei principi morali senza sminuire la razionalità economica intrinseca all’atto dell’acquistare”.
Il nuovo circuito causale che se ne deriva da quanto fin qui detto può allora essere rappresentato come in figura.
In input al circuito vi sono la virtù della temperanza e la ricerca del significato della nostra vita, avere una direzione e sapere da cosa siamo gratificati, cosa ci far star bene realmente, cosa ci rende felici, cosa ci rende degni di vivere la nostra vita.
Questi due elementi ci consentono di cambiare l’attuale modello mentale e quindi definire un nuovo stile di vita. Di certo questa decisione ci porterà verso tre nuovi comportamenti:
1. Esigere dalle imprese merci diverse da quelle sino ad ora disponibili;
2. Esigere dallo Stato servizi diversi da quelli sino ad ora disponibili;
3. Condividere con gli altri i nostri beni.
Se seguiamo le frecce del circuito ci rendiamo subito conto che queste tre azioni rendono possibile la pratica in forma bilanciata (come dice l’enciclica Caritas in veritate) della solidarietà e della sussidiarietà. E quest’ultima rinforza il fatto che lo Stato e le imprese devono produrre ciò che ci serve realmente e che riconosciamo non possa che essere prodotto dall’industria.
Di fatti la possibilità di condividere beni con altri ci mette nelle condizioni di avere meno bisogno di lavoro retribuito. Con un primo grande risultato che è quello di rendere disponibili nuovi posti di lavoro.
Ovviamente dedicare meno tempo al lavoro retribuito significa avere più tempo da dedicare per se, per la propria crescita spirituale oltre che materiale; poter dedicare tempo alla famiglia ed alla educazione dei figli ed infine alla autoproduzione di beni e servizi. Il tutto ci fa gustare un benessere che a sua volta rafforza in noi la certezza che il nuovo stile di vita è quello giusto.
Certamente avrei potuto esplodere meglio il circuito o legare fra loro altri elementi, ma questo esercizio vuole essere la semplice rappresentazione grafica di un circuito virtuoso che si auto sostiene nel tempo. Per dare vita a questo circuito ho chiamato in causa “risorse morali”, e queste, hanno generato la convinzione e la definizione di un nuovo stile di vita che trova conferma e si rafforza, nel tempo, grazie al ritorno di benessere che esso stesso è capace di generare.
Il problema di fondo di tutto questo ragionamento, resta l’attuale modello mentale è quindi la capacità di abbandonarlo a favore di un altro che in apparenza si dimostra utopistico ma che di fatto non è. Basta volerlo assaporare per un po’.
Facciamo quindi un’ultima ricognizione delle cose e terminiamo questa riflessione.
Quali elementi gratificano la mia esistenza? C’è qualcosa d’altro oltre il denaro e ciò che ne consegue dal fatto di poterne disporre in buone quantità per acquistare cose che altri non hanno o che mi permettono di essere simile alle persone “che contano”?
Forse la mia autostima? Ma questa dipende da quanto guadagno o da altro? Quanto è importante il fatto di sentirmi considerato dagli amici, dai parenti, dai miei colleghi, dal mio capo, dai miei clienti, ecc.? E’ possibile che la mia autostima aumenti senza metterci di mezzo il denaro? Mi rende felice il donare il mio tempo ed il mio saper fare qualcosa per chi ne ha bisogno? Mi bastano i complimenti e gli attestati di amicizia e di stima? O desidero qualcos’altro? Cosa mi fa stare bene quando sono al lavoro? E quando sono in famiglia? E quando sono con i miei amici? E’ più importante stare 10 minuti a pregare davanti al Santissimo Sacramento o fare un altro po’ di straordinario? E cosi via.
Le domande potrebbero continuare all’infinito e le risposte pure, tutte soggettive, perché non esiste una risposta per tutti.
Ognuno di noi può e deve determinare ciò che è per lui il vero benessere. L’importante è mettersi nelle condizioni di poterlo fare e non lasciare che altri decidano per noi.
[1] Card. Joseph Ratzinger – Conferenza per l’ottavo centenario della nascita di S. Antonio da Padova