Responsabilità del Cristiano: corrispondere ai doni ricevuti.

Responsabilità del Cristiano: corrispondere ai doni ricevuti.

Per trattare questo argomento dobbiamo necessariamente partire dalla parabola dei talenti (Matteo 25,14-30).

 

Ma per comprendere la vera quantità dei talenti che abbiamo ricevuto sino ad oggi ci dobbiamo riferire ad un altro brano del vangelo di Matteo (18,24-27) Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Proviamo ad attualizzare in euro il valore di un talento e di seguito quello di 10.000 talenti.

Al tempo di Gesù, a livello monetario, un talento era pari 6.000 dramme o denari. Se si pensa che la retribuzione giornaliera di un operaio si aggirava su un solo denaro, si può comprendere bene l’importanza dell’incarico affidato dal padrone della parabola ai suoi servi.

Parliamo di 6.000 giorni di lavoro = 25 anni (240 gg/anno)
Proviamo una traduzione in euro approssimativa:
Se il reddito di un lavoratore oggi è pari a 24.000 euro l’anno
25 anni x 24.000 euro = 600.000 euro = un talento.
Cinque talenti sono pari a 3.000.000 euro! Tre milioni di euro!
10.000 talenti sono 6.000.000.000 euro = 6 miliardi di euro.!!!!

Che debito, e quanto dobbiamo ringraziare visto che il Signore ci perdona tutto e con i sacramenti continua a darci la sua grazia.

E’ importante rendersi conto dei doni ricevuti. Non dobbiamo certo gloriarcene (come se non fossero doni) ma non dobbiamo neanche negarli: averne coscienza ci spinge a ringraziare Dio e a cogliere quanta è grande la responsabilità nostra nei confronti degli altri e di Dio che ci chiederà conto di come abbiamo fatto uso di tali doni.

 

“Se consideriamo con umiltà la nostra vita, vedremo chiaramente che il Signore, oltre alla grazia della fede, ci ha concesso dei talenti, delle qualità. Nessuno di noi è un esemplare ripetuto in serie: Dio nostro Padre ci ha creati a uno a uno, distribuendo tra i suoi figli un diverso numero di beni”.

 

Ci sono doni di natura: salute, bel temperamento, ingegno, capacità di iniziativa, creatività, coraggio, ecc.
Doni di grazia: fede, sacramenti, carismi, vocazione, ecc.
Doni di fortuna: incontri, ricchezze ereditate, occasioni di lavoro, ecc.

Dobbiamo mettere quei talenti, quelle qualità, al servizio di tutti, utilizzando i doni di Dio come strumenti per aiutare gli altri a scoprire Cristo”.

I doni ricevuti, infatti, sono correlati ai bisogni del nostro prossimo e la misura dei talenti che devono essere impiegati è pari alle necessità (aiutare gli altri a scoprire Cristo) del prossimo nel momento presente.

 

“Non immaginatevi quest’ansia come un sovrappiù, come un abbellire con una filigrana la nostra condizione di cristiani. Se il lievito non fermenta, marcisce. Può scomparire per ravvivare la massa, ma può anche scomparire perché si perde, lasciando un monumento all’inefficacia e all’egoismo”.

 

I Talenti vanno utilizzati con grande umiltà, ma “Tu e io, invece, sovente ci inorgogliamo stoltamente per i doni e i talenti ricevuti, facendoli diventare un piedistallo per imporci sugli altri, come se il merito di certe azioni, portate a termine con relativa perfezione, dipendesse esclusivamente da noi: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto? (1 Cor 4, 7). Nel considerare la dedizione che Dio fa di Sé e il suo annichilimento — lo dico perché lo meditiamo, e ciascuno pensi a sé —, la vanagloria, la presunzione del superbo rivelano la loro natura di peccati orrendi, proprio perché collocano la persona all’estremo opposto del modello che Gesù Cristo ci ha offerto col suo comportamento. Pensateci bene: Egli, che era Dio, umiliò se stesso. L’uomo, orgoglioso del proprio io, pretende a ogni costo di esaltare se stesso, non riconoscendo di essere fatto di rozza terraglia”. (Amici di Dio 112)

 

I talenti quindi sono mezzi e noi ne siamo amministratori. Lo sappiamo? Ci sono stati dati per … (non sono di nostra proprietà); ci sono stati affidati per portare persone a Cristo.

 

“Non facciamo un favore a Dio nostro Signore nel farlo conoscere agli altri Dice San Paolo: Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere — a motivo del mandato di Gesù —: guai a me se non predicassi il Vangelo! (1 Cor 9, 16)”. (Amici di Dio 258)

 

“Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui. Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale. I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede …
Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone”. (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2012)

 

Come possiamo riconoscere i talenti ricevuti e la responsabilità che ne consegue? Dedichiamo tempo alla nostra formazione. Sembra una risposta banale, ma… “non abbiamo mai tempo” è la nostra corrispondente banale risposta.

 

Giovanni Paolo II ha scritto: “La formazione dei fedeli laici ha come obiettivo fondamentale la scoperta sempre più chiara della propria vocazione e la disponibilità sempre più grande a viverla nel compimento della propria missione.

Dio chiama me e manda me come operaio nella sua vigna; chiama me e manda me a lavorare per l’avvento del suo Regno nella storia: questa vocazione e missione personale definisce la dignità e la responsabilità dell’intera opera formativa, ordinata al riconoscimento gioioso e grato di tale dignità e all’assolvimento fedele e generoso di tale responsabilità”.

 

La formazione è il prerequisito per fare ciò che Dio vuole da noi.

 

“Non si tratta, comunque, soltanto di sapere quello che Dio vuole da noi, da ciascuno di noi nelle varie situazioni della vita. Occorre fare quello che Dio vuole: così ci ricorda la parola di Maria, la Madre di Gesù, rivolta ai servi di Cana: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2, 5). E per agire in fedeltà alla volontà di Dio occorre essere capaci e rendersi sempre più capaci. Certo, con la grazia del Signore, che non manca mai, come dice San Leone Magno: «Darà il vigore Colui che conferì la dignità!»(210); ma anche con la libera e responsabile collaborazione di ciascuno di noi”.

 

Ma la sola formazione non basta, necessita di un apprendimento sul campo ma soprattutto dello stare alla presenza di Dio.

 

“Infatti, Dio dall’eternità ha pensato a noi e ci ha amato come persone uniche e irripetibili, chiamando ciascuno di noi con il suo proprio nome, come il buon Pastore che «chiama le sue pecore per nome» (Gv 10, 3). Ma il piano eterno di Dio si rivela a ciascuno di noi solo nello sviluppo storico della nostra vita e delle sue vicende, e pertanto solo gradualmente: in un certo senso, di giorno in giorno.
Ora per poter scoprire la concreta volontà del Signore sulla nostra vita sono sempre indispensabili l’ascolto pronto e docile della parola di Dio e della Chiesa, la preghiera filiale e costante, il riferimento a una saggia e amorevole guida spirituale, la lettura nella fede dei doni e dei talenti ricevuti e nello stesso tempo delle diverse situazioni sociali e storiche entro cui si è inseriti”. (Christifideles laici, 58)

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