La scarsa partecipazione femminile al lavoro, è un fattore cruciale di debolezza del nostro sistema economico. Su quest’ultimo punto Salvatore Rossi, neo-segretario generale di Palazzo Koch (e fino a poco fa a capo della ricerca economica), ha annunciato un lavoro di prossima pubblicazione teso a dimostrare come la crescita nazionale potrebbe crescere di ben 7 punti percentuali in pochi anni se il numero delle donne che lavorano salisse dall’attuale 46% a cui siamo inchiodati (pari a venti punti meno di quella maschile e più bassa che in quasi tutti i paesi europei) a quel 60% che è l’obiettivo fissato dagli stati Ue nel 2000, dentro la ‘strategia di Lisbona’ sulla competitività.
Ha detto recentemente Draghi che la diffusione negli ultimi 15 anni dei contratti a tempo determinato e parziale, da un lato «ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione» dall’altro ha introdotto «un pronunciato dualismo»: 1. i lavoratori "anziani" che sono "iper-tutelati", 2. i precari "con scarse tutele e retribuzioni". Insomma, occorre «riequilibrare» una flessibilità «oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso», che quindi pone problemi di vita soprattutto ai giovani.
Le giovani donne rappresentano il 60% dei laureati e conseguono il titolo in minor tempo dei maschi, con risultati in media migliori e, cosa interessante, sempre meno nelle discipline umanistiche, orientandosi quindi al contrario verso quelle tecnico-scientifiche.
Eppure il loro accesso ai posti di lavoro viene frenato, perché non si vuole capire che molte donne non vogliono rinunciare alla vocazione di essere madre. E quindi per loro deve essere stipulato un contratto che faccia stare bene la donna che vuole vivere entrambe le vocazioni (lavoro, famiglia). Quando poi qualcuno decide di assumerle si è difronte all’aggravante che i loro stipendi restano più bassi del 10% rispetto a quelli maschili.