Di recente ha scritto Giuseppe O. Longo, «la tecnologia non modifica la nostra visione del mondo e la nostra azione su di esso solo nel senso scontato di potenziare i nostri sensi: essa agisce a livello più profondo, poiché incide sui riferimenti primari, modifica la nostra epistemologia e, attraverso di essa, la nostra ontologia».
Parole preoccupanti sul serio. E’ doveroso, quindi, chiedersi: Come individuare un riparo, un limite invalicabile che custodisca l’esistente dall’invadenza del post-umano?
La risposta sembra difficile se consideriamo che viviamo nell’epoca del congedo dall’umano.
I confini di ciò che millenni abbiamo conosciuto come il “regno” dell’umano sono diventati porosi, attraversati da spinte corrosive: le frontiere tra uomo e macchina, tra naturale e artificiale, persino tra vita e morte si confondono.
La tecnica, nelle sue ramificazioni, è giunta a minacciare e attentare la grana stessa del naturale.
Un’invasione della tecnica che tocca l’identità stessa dell’uomo.
Ritengo che si abbia ormai una piena consapevolezza che l’orizzonte ontologico, aperto dalla contemporaneità, è segnato dall’irruzione di qualcosa di inedito.
Scrive Gianfranco Ravasi nell’introduzione a I care humanum: «lo stesso uomo non si è più accontentato di essere un passivo osservatore della sua identità strutturale, ma si è eretto a ricreatore di se stesso modificando la sua natura, sia nelle profondità dell’organismo umano attraverso l’ingegneria genetica, sia negli strati esterni trasformando attraverso la chirurgia estetica il proprio apparire».
Resto preoccupato perché forse la tecnologia sta “cambiando” anche me. Ma io voglio restare umano e quindi prego Dio di farmi assomigliare sempre più all’umanità di Cristo.