Prefazione di Roberto Lorusso al libro di Girolamo Minardi: “Col vento leggero della sera” edito da Di Marsico Libri.
Poche pagine, un gran bel racconto che si legge in un’ora ma che ti può far meditare per giorni interi.
Gli spunti per la riflessione sono tanti e possono prendere avvio dalle parole di sempre:
libertà, uomo, natura, alberi, fretta, sofferenza, ambiente, lotta, amore, civiltà, cattiveria, interessi, lentezza, egoismo, progresso, odori, onore, diversità, comunità, servizio, terra, rispetto, acqua, pace, vento, diffidenza, dolore, dono, sapori, unzione, regalità, silenzio, ascolto, morte, ritmo della natura, materia, longevità, merci, sfruttamento, solitudine, frenesia, crudeltà, tristezza, frutti, ristoro, energia, riscatto, tolleranza, prudenza, crescita, velocità, priorità, qualità, cura, ricchezza, illusione, vita,
che sono contenute nel testo. Ma esiste una parola, anch’essa presente, che domina su tutte le altre. E’ da questa parola: il tempo che parte la mia riflessione che voglio condividere con voi sotto forma di prefazione a questo dialogo tra padre e figlio.
Quante volte ci scusiamo di fronte a cose che pure riteniamo di dover fare – come leggere questo libro, fare compagnia a un parente ammalato, telefonare un amico per ringraziarlo, ascoltare un collega in difficoltà – e diciamo: “… vorrei, ma non ho proprio tempo”.
Forse pochi di noi sospettano che tale modo di fare, avvolte deprimente, ci preclude una grande opportunità: gustarci in santa pace un po’ di tempo non più divorato dal ritmo dell’orologio, ma colmo di una ricchezza che non delude; un tempo tutto per noi e per gli altri, da investire con entusiasmo, gioia, equilibrio e pace.
Non è certo la mancanza di tempo in quanto tale che ci fa stare male e penso neanche la quantità d’impegni o la complessità dei problemi che dobbiamo affrontare, quanto piuttosto la percezione del fatto che la nostra vita (il senso della nostra vita, quello che abbiamo voglia di essere e di realizzare) dipende unicamente dal tempo.
C’è poco da fare noi abbiamo fin troppo chiaro che il nostro vivere qui sulla terra consta proprio nell’avere tempo, e non averne significa, di fatto, morire.
Infatti, lo sappiamo bene, tutto quello che di buono riusciamo a fare non serve a fermare il tempo neanche a trattenerlo un po’. Eccoci, dopo aver raggiunto i nostri buoni propositi (obiettivi), di nuovo ad affrontare il tempo che passa: con le sue incertezze, con i suoi rischi, con i suoi problemi e con l’età che avanza.
E da qui che ci nasce l’angoscia ed il desiderio di fuggire dal tempo. Il tempo che trascorre inesorabilmente porta alla nostra attenzione, ed intelligenza, la nostra condizione di esseri limitati e avviati impietosamente senza scampo verso la morte. E questo che in fondo ci fa paura e cerchiamo di difenderci in tutti i modi. Anche per questo leggiamo poco, abbiamo paura che qualche buona lettura ci faccia riflettere troppo. Abbiamo sempre la balorda paura che stiamo “perdendo tempo”.
In poche parole, se il tempo ci sfugge, lo inseguiamo per trarne il maggiore vantaggio. Se incombe, proviamo a vivere tutte le soddisfazioni possibili. Sono tante le maniere e le astuzie che utilizziamo per riempire il tempo pur di illuderci di dominarlo.
La ricchezza di euro prima di tutto. Se il tempo è denaro, averne tanto e la possibilità di spenderlo ci convincono di essere padroni del tempo, anche di quello degli altri. E purtroppo arriviamo alla conclusione che il nostro tempo è quello che vale (perché costa molto denaro) e che il tempo degli altri vale poco (perché possiamo comprarlo a nostro vantaggio).
Anche l’ambizione, il dominio sugli altri e sulle cose, grazie a dio non scherzano. Ad esempio, il nostro successo (ottenuto ad ogni costo) è un modo ingannevole di possedere il tempo. Facciamo un altro esempio, parliamo del potere, quello politico è il più appropriato. Quando è realizzato come fine a se stesso, come esaltazione della propria potenza e della propria supremazia sull’altro, genera l’impressione di essere eterni a spregio del tempo.
Ma è in questo modo che ci parla questo racconto? Non credo proprio. Bellissima è l’immagine della potatura. Per essere migliori per dare buoni frutti bisogna farsi potare, anche se sappiamo che questa ci farà un po’ di male.
Queste che vi ho scritto sono le mie prime riflessioni, e per non essere ingeneroso, voglio concludere questa prefazione con un altro messaggio che ho colto dall’atteggiamento di chi ha scritto questo racconto.
In realtà vorrei farvi riflettere sul perché Girolamo Minardi ha dedicato del tempo per il suo nipotino e per tutti i nipotini del mondo.
Penso che l’autore sia un uomo vigile, nel senso che trattasi di persona che rimane all’erta e non lascia che le cose passino inosservate. L’immagine più corretta è quella di chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo si avvicina. Scrivere al nipotino (a lui e alle generazioni che verranno) significa voler badare con amore chi non può difendersi, significa custodire per lui qualche cosa di molto prezioso, farsi presidio di valori importanti che la società iper-consumistica sta cancellando.
Ma voglio cogliere un insegnamento anche per noi adulti che abbiamo smesso di essere uomini attenti a quello che accade. Siamo sempre meno perspicaci, e quindi svegli nel capire ciò che ha partorito la globalizzazione (una felicità omologata fatta di merci da consumare e rifiuti da produrre) e impreparati a fronteggiare l’emergenza.
Rimanere svegli, essere attenti, avere cura, difendere i valori della vita e della natura, questo è quello che auguro a quanti leggeranno questo libro. Se impariamo a vegliare daremo una mano alla società tutta perché colga prontamente i segni del proprio degrado, per ergersi contro la corruzione dilagante, e la smetta di rassegnarsi allo sfascio delle sue istituzioni pubbliche che alla fine significano sempre il trionfo dei furbi e dei prepotenti.
Facciamoci ungere dall’olio della saggezza.
Roberto Lorusso
Esperto in pianificazione strategica e apprendimento continuo (www.robertolorusso.it)