Per vedere le cose bisogna essere allegri escursionisti della vita.
Conosciamo l’escursionismo come un’attività motoria e sportiva basata sul camminare in un territorio a scopo di studio o svago, lungo percorsi poco agevoli che tipicamente non possono essere percorsi con i mezzi di trasporto convenzionali.
Allegria vuol dire contentezza, buon umore, ma anche gioia, felicità, festosità, gaiezza, giocondità, giovialità, ecc.
In sintesi, forse potremmo dire: per vedere le cose bisogna camminare con gioia e sportivamente lungo percorsi poco agevoli della nostra vita.
Quali cose?
Quelle, di noi, che non riusciamo a vedere da soli.
Cosa non è poco agevole? Forse il dialogo con gli altri?
Perché chi sta seguendo una propria suggestione non cercherà mai il confronto con qualcuno che lo possa contraddire. Anche se dovesse essere costretto il suo atteggiamento sarà quello arrogante aggressivo, tanto da mettere l’altro a tacere.
Ma senza relazioni non è possibile capire le cose.
Sono forse le relazioni quel territorio che dovremmo percorrere con gioia, senza paura, ma con allegria?
Perché scappiamo davanti ad una relazione che genera in noi un imprevisto?
La maggior parte delle volte ci arrabbiamo e fuggiamo, poi quando lo affrontiamo ci rendiamo conto che conteneva una opportunità. Forse dovremmo imparare a non scappare. Gli altri non nascondo un pericolo ma un percorso, se pur poco agevole, da fare insieme.
Solo nella relazione diamo noi stessi e capiamo noi stessi. L’altro ci aiuta a tirar fuori il meglio da noi stessi. L’altro finalmente ti fa abbandonare le menzogne che dici a te stesso.
La nostra guarigione, dalle cose che di noi non capiamo, è la felicità altrui.
Sono d’accordo.
La relazione con persone che hanno pensieri/opinioni diversi, crea apprendimento e migliora la qualità della nostra vita.
Supponiamo che abbia capioto la tua sollecitazione sulla “relazione”.
Se è vera l’ipotesi provo ad esprimerti un pensierino semplice ed uno/due complicati.
Il semplice.
La domanda esistenziale “chi sono?”, da Mosè in poi è diventata “chi sono con chi sono?”.
La conclusione è conseguente: siamo chiamati all’esistenza in relazione con se stessi e l’altro.
Ma, qui comincia il pensierino un pò complicato.
Non è mio!
«L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso.
L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l’uomo non è ancora un io.
Nel rapporto fra i due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè i due si mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si mettono in rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la determinazione dell’anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è l’io.
Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un io, o deve esser posto da sé o dev’esser stato posto da un altro.
Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero.
Un tale rapporto derivato, posto, è l’io dell’uomo, rapporto che si mette in rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di disperazione in senso proprio. Se l’io dell’uomo si fosse posto da sé, si potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso, di volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare della disperazione di voler essere se stesso. Questa formula è infatti 1’espressione del fatto che l’io, da sé, non può giungere all’equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Anzi, quella seconda forma di disperazione (disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione può, in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata».
In un certo senso, anche San Paolo la pensa come Kierkegaard.
«Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito. Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione -, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Come puoi leggere, l'”allegria” un senstimento da te accostato alla “relazione” è un sentimento che va maneggiato con molta delicatezza per non farla confondere con l’evasione dalla relazione, quella vera.
Ben vivere, in relazione. Sempre!